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The paper aims at showing the cultural and intellectual atmosphere the author brothe in the years of the Resistance movement. The author, who in that period was a partisan, vows that the Resistance movement will be studied in school in a way that show its capacities in stimulating youth trust in the future.
It is available online at https://doi.org/10.36253/978-88-5518-650-6.03
Saluti inaugurali. La Resistenza e il futuro
Carlo Smuraglia
Grazie, anzitutto, dell’invito. Ho fatto ogni genere di attività nella mia vita, però continuo a considerare con maggior rimpianto il periodo in cui ho insegnato all’Università, nella quale torno sempre volentieri, perché lì è nata buona parte della mia vita, dei miei pensieri e i rapporti che si sono creati in quel periodo sono quelli che restano più vivi nella mia memoria. Quindi sono contento di essere in questa sede a parlare di un tema che riguarda soprattutto il modo di affrontare la Resistenza. C’è una viva preoccupazione in giro, perché molti si chiedono come si farà a raccontare la Resistenza, a farla conoscere d’ora in poi, visto che stanno scomparendo gli ultimi protagonisti, per ragioni di età. Il problema c’è, ma c’è soprattutto per chi pensa che la Resistenza vada letta e interpretata per quello che emerge dagli stessi racconti di chi l’ha fatta; questo, in parte, ha un margine di verità, ma non è tutto, perché la Resistenza ha costruito anche il nostro futuro. Mi rifaccio alla mia esperienza personale: ero un ragazzo di vent’anni, studiavo felicemente alla Scuola Normale superiore di Pisa, dopo aver vinto il concorso e improvvisamente mi si pose questa alternativa: rispondere alla chiamata della Repubblica di Salò, oppure scomparire. Scomparire voleva dire rendersi irreperibile. C’erano manifesti affissi per le strade che avvisavano che i giovani che fossero stati colti a non essersi presentati alla Repubblica sociale, potevano essere passati per le armi. Davanti a questa prospettiva, l’unica possibilità era quella di ‘scomparire’, andare verso luoghi dove potevano esserci dei compagni, degli amici, qualcuno che condividesse le stesse idee, per mettersi insieme. Così alla fine è nata la Resistenza: da questo grande incontro tra ragazzi come me, con vecchi antifascisti che avevano frequentato le galere e tutte le isole in cui il fascismo li aveva relegati e altri che non avevano fatto né l’una né l’altra esperienza, ma non erano stati fascisti, anzi erano stati contrari al fascismo, ma senza manifestarlo in modo esplicito. Quindi la Resistenza è stato un grande crogiuolo di giovani inesperti che non avevano mai conosciuto la democrazia, ma avevano istintivamente un rifiuto profondo per chi negava la libertà, e quindi anche per il fascismo. Poi c’erano altri che arrivavano con altre motivazioni, altre spinte; per esempio, ufficiali dell’esercito che avevano ritenuto di non poter mantenere il giuramento al Re, dopo il tradimento dell’8 settembre. Un complesso di persone molto diverse fra loro, di diverse provenienze e idee e in qualche caso anche di diverse ideologie. Dunque, pensare a come la Resistenza nel suo complesso, guardasse al futuro, è una cosa importante che certamente va al di là di quello che un resistente può raccontarci. In realtà chi ha partecipato alla Resistenza può raccontare la sua esperienza, magari legata a vicende importantissime, ma circoscritte, senza cogliere l’insieme delle cose e spiegarsi anche altre vicende fra cui la stessa Costituzione, la cui origine sta proprio nel modo in cui la Resistenza ha affrontato il futuro. Molti fanno riferimento alle lettere di condannati a morte della Resistenza, in cui si legge prevalentemente il richiamo alla patria, alla famiglia. È un momento terribile, si sta per essere uccisi, non si fanno certo grandi ragionamenti impegnativi. Sicuramente, anche da lì si ricava quella che era una base comune per tutti, cioè il desiderio di persone, anche diverse per estrazione sociale, di farla finita col fascismo, cacciare i tedeschi e vincere la guerra insieme agli alleati. Questa era la base di tutto. Io credo, però, che ci fosse, nell’insieme, molto di più e penso che questa parte abbia bisogno ancora di essere affrontata, studiata e spiegata anche alle nuove generazioni. Bisogna, allora, cogliere i sintomi di tutto questo che, con molta probabilità, si trova non tanto nelle lettere dei condannati a morte quanto in alcuni comportamenti che hanno un particolare significato. Per esempio, sul finire della guerra, proprio nei giorni immediatamente successivi al 25 aprile, c’era ancora una parte d’Italia che doveva essere liberata. In un reparto (che era composto prevalentemente da partigiani che si erano arruolati volontari nell’esercito italiano, dopo che era stata liberata la zona dove avevano operato), venne il Luogotenente Generale del Regno, che rappresentava il Re che era fuggito dopo l’armistizio. Dovevano essere passati in rassegna, quei giovani soldati della Divisione Cremona, ai quali era stata fatta una pressante raccomandazione, di stare tranquilli e rispettosi. Ebbene, proprio da quelle file, al passaggio del Luogotenente si levò una marea di fischi. Un gesto inammissibile da parte di un esercito regolare, ma che esprimeva un sentimento che poi ritroveremo nella Costituzione, quando verrà stabilito che la forma scelta per il nostro Paese non può essere che quella repubblicana. Quei giovani, quegli anziani che avevano combattuto insieme, ai quali era stato raccomandato di non reagire di fronte a colui che li avrebbe passati in rassegna, avevano tenuto un comportamento vietatissimo, seguìto da un grande dibattito se punirli tutti o meno. Lì c’era già stata la scelta del futuro, cioè l’indicazione della scelta repubblicana. Non era stata condannata soltanto la fuga del Re, ma un intero sistema ed era stata espressa l’idea che una nuova Italia dovesse essere necessariamente una repubblica. Questo era già un fatto indicativo, ma lo era ancora di più un’altra vicenda, alla quale anche alcuni libri della storia contemporanea dedicano poche pagine, quella delle cosiddette ‘Repubbliche partigiane’, che riassumo in poche parole. Ci furono, verso la fine del ’44, delle zone che per motivi anche solo occasionali furono abbandonate dai tedeschi e dai fascisti e rimasero temporaneamente libere. Solo temporaneamente, perché questa situazione durò pochissimo, al massimo trenta o quaranta giorni, dopo di che erano tornati i fascisti e i tedeschi, esasperati, perché si andava verso una conclusione della guerra, per loro tragica. Questi territori oggi li chiamiamo ‘Repubbliche partigiane’, ma allora non si chiamavano di certo così: furono definite infatti dai primi storici come «aree libere». Poi è stata modificata l’espressione in ‘Repubbliche partigiane’, perché – con sorpresa – ci si rese conto che i resistenti di quelle zone, per prima cosa, si erano organizzati. Molti di loro non avevano mai conosciuto la democrazia, non l’avevano mai sperimentata, però la misero in atto in quel momento, creando organismi elettivi, nominando i responsabili. In modo un po’ particolare, perché quelli che venivano eletti o indicati, erano quasi sempre uomini; poi, in realtà, l’assenza di gran parte degli uomini fece sì che quei ruoli fossero svolti egregiamente da donne. Una di queste, addirittura, fu – nella ‘Repubblica’ dell’Ossola – nominata ‘ministra’. Un’esperienza importantissima, quasi casuale, che però esprimeva in embrione la democrazia, che nasceva in zone circondate dai tedeschi e dai fascisti che poi sarebbero tornati, ma intanto loro si organizzavano e si davano delle regole, creando perfino una sorta di polizia, stabilendo la calmierazione dei prezzi. Per questo, hanno assunto successivamente il nome di ‘Repubbliche partigiane’, proprio perché – come già detto – si erano appunto date un assetto democratico. È un fatto di estrema importanza, che rivela qualche cosa che riguarda il futuro: è il primo esperimento di democrazia che viene compiuto mentre intorno c’è la guerra, ci sono i fascisti e tedeschi. La cosa che mi preme sottolineare, perché spesso è trascurata, è che in alcune delle maggiori repubbliche partigiane (che sono – per esempio – quelle della Carnia e quella dell’Ossola) furono dettate delle regole che assomigliano straordinariamente a quelle che oggi sono nella Costituzione: una per tutte, quella sulla progressività dell’imposizione fiscale, a seconda del reddito del contribuente. Ci fu, insomma, un’anticipazione di quella che poi diventerà una norma fondamentale della Carta costituzionale. Quegli improvvisati amministratori riuscirono dunque ad ideare e introdurre norme che anticipavano quello che sarebbe poi scritto nella Costituzione.
È un dato molto importante da evidenziare, perché vuol dire che non si pensava solo alla cacciata dei tedeschi, alla fine da guerra, all’allontanamento dei fascisti per sempre, ma anche alla costruzione di un nuovo sistema.
In una lettera inviata a un gruppo parlamentare, parlando appunto di questo tipo di esperienza, Aldo Moro faceva notare che l’idea che non si dovesse tornare all’esperienza del periodo liberale e alle costituzioni di tipo tradizionale, ma varare un sistema istituzionale democratico nuovo, era fondamentale e di estrema importanza. Ciò vuol dire che Aldo Moro aveva percepito è che – una volta liberati – si sarebbero dovute dettare nuove regole, per non tornare agli statuti albertini di fine ’800, ma regole assolutamente nuove, che tenessero conto delle esperienze realizzate lottando insieme, tra persone diverse.
Un altro esempio di qualche cosa che trascende molto la realtà e che andrebbe ben spiegato se si vuol capire davvero fino in fondo che cosa è stata e che significato ha avuto, anche sul piano morale, la Resistenza. I fischi al Luogotenente, il rifiuto della monarchia, l’esperienza delle ‘Repubbliche democratiche’ ci danno indicazioni molto precise, sulle quali si riflette molto poco e se ne parla altrettanto poco nei libri di storia. Quando non ci saremo più noi partigiani, ci sarà, però, tempo per la riflessione, per cogliere gli aspetti cui sto accennando. Voglio dire che in questa vicenda grandiosa c’è stato molto di più di quanto solitamente si suole indicare: in realtà si stava preparando un futuro che andava molto al di là del momento in cui sarebbe finita la guerra e sarebbero stati cacciati definitivamente i fascisti e i tedeschi. Tutto questo io credo che sia di straordinaria importanza, perché assegna a tutti noi, ma soprattutto alla scuola, un compito fondamentale: come si potrà far conoscere – in futuro – la Resistenza se non si terrà conto di tutti i dati e gli elementi di cui si ha notizia? Quando non ci sarà più il partigiano che racconta la sua storia, andremo avanti a raccontare ancora gli episodi dei gappisti e le operazioni militari più importanti, o cercheremo di cogliere lo spirito con cui nella Resistenza si guardava al futuro, attraverso i segni di quelle vicende di cui non si parla spesso, ed anzi sono quelle che più di frequente vengono trascurate? Io ve ne ho indicate alcune, ma ne potrei indicare molte altre se non ci fossero ovvie esigenze di tempo, che intendo rispettare. Questo presuppone, peraltro, una conoscenza reale e una attenta riflessione da parte di chi dovrà insegnare la Resistenza nelle scuole, dove, purtroppo, viene insegnato troppo poco perfino su che cosa sia stato il fascismo. Devo ricordare ancora una volta che nella legge Scelba, (e sto parlando di una legge che porta il nome di un uomo che non era l’immagine tradizionale e fondamentale della democrazia), c’è un articolo, l’art. 9, in cui si afferma che la Repubblica è impegnata a far conoscere nelle scuole «che cosa è stato realmente il fascismo». Mi sembra che dal 1952, data di promulgazione di quella legge, quell’articolo non sia stato molto applicato. Mi sembra che, salvo i casi in cui ci sia stato un grande impegno da parte di qualche insegnante per parlare seriamente della Resistenza ai suoi studenti, in generale, sia stato fatto molto poco. Non avremo più testimoni, ma avremo ampia materia e ampio spazio su cui riflettere e ragionare; e questo è un compito che io sottolineo con forza.
Parlare della Resistenza in generale, e non solo di quella armata, (a prescindere dal fatto che non pochi resistenti odiavano le armi), significa parlare anche degli ideali, che andavano al di là della conclusione della guerra. C’era, per esempio, il mito dell’Unione Sovietica come sistema da seguire. Poi risulterà che in alcuni casi, la realtà era ben diversa dalle illusioni. Tant’è che nella Costituente non passò la tesi di indicare la Repubblica italiana come una repubblica «dei lavoratori», secondo l’emendamento famoso proposto da Togliatti ed altri, ma fu accolta un’altra versione, pure di grande significato, secondo la quale «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Una soluzione che fu un risultato importante, perché mise d’accordo quelli che avrebbero voluto mettere al primo posto il lavoro e quelli che invece avrebbero voluto collocarci l’impresa che, secondo i quali, essa «comprendeva tutto» e quindi avrebbe dovuto prevalere. Non fu un compromesso, come alcuni sostengono, ma realmente un’intesa assai dibattuta e significativa. Parlare di una Repubblica fondata sul lavoro, ci riporta ad un altro aspetto della Resistenza, assai complesso, di cui spesso non si parla, perché è antecedente all’inizio della Resistenza stessa. Nella primavera del ’43 e poi in quella del ’44 ci furono grandissimi scioperi nell’Italia del Nord, in cui si rivendicavano salari e ‘pane’, oltre alla fine della guerra; ma c’era anche l’aspirazione a un mondo diverso, ad un mondo nuovo, insomma la ricerca e la rivendicazione di un futuro migliore. Per questo, quando parliamo di Resistenza in senso lato, dobbiamo tener conto della complessità di un fenomeno di tanto rilievo, che ci impone di tener conto di quella armata e di quella non armata, degli scioperi del ’43-’44, dei militari che in Grecia posti di fronte all’alternativa della resa o della deportazione, decisero all’unanimità di rispondere di no, quale che fosse il costo del rifiuto. Così, molti finirono in Germania, molti morirono sul posto, resistendo ai tedeschi. Anche questa è Resistenza. Come la insegneremo e spiegheremo nelle scuole? Questo è un tema delicato e importante; io ho voluto solo sottolinearlo per dire che, se è finita l’epoca dei racconti diretti dei partigiani, deve almeno iniziare a svilupparsi quella della riflessione, del cercare di capire la vera essenza di questo momento fondamentale, che viene spesso considerato, a torto, un ‘secondo Risorgimento’, perché in realtà sono due fenomeni totalmente diversi. Questo è importante per capire anche i nostri giorni e la nostra storia più recente.
Concludo su questo, per sottolineare le ragioni e le origini di questa Costituzione. Molti dei princìpi che sono nella Costituzione sono il frutto dell’incontro fra persone diverse durante la Resistenza e di un pensiero comune che mirava a trovare soluzioni che ponessero in primo piano il rispetto della persona, la solidarietà, l’uguaglianza, i valori del lavoro e soprattutto la dignità, cioè tutto quello che era stato calpestato nel periodo infame del fascismo, del nazismo e della guerra.
Mi auguro che su questo ci sia una importante riflessione nel futuro. Oggi ho voluto ricordarlo perché per me questo è il punto fondamentale quando si parla di Resistenza.