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The paper aims at dealing with didactics of Resistance through the relationship between the historical wtnesses and younger generations. As the first has lived the historical events he is going to narrate, younger generations constitute ideally the depositary of a rich and fragile set of informations. Based from this perspective, the paper is going to speak about a students' cycle of meetings organised in some schools in the province of Pistoia, between 2016 and 2018: the vocational institute "Martini" and the technical institute "Marchi". Meetings were held by SIlvano Sarti, who fought as partisan in the "Brigata Sinigaglia" in 1944 and who was appointed ANPI provincial president in Florence.
It is available online at https://doi.org/10.36253/978-88-5518-650-6.13
Didattica con i testimoni, l’esperienza con Silvano Sarti
Massimo Vitulano
In ogni epoca, l’uomo ha avuto bisogno di simboli, perché i simboli hanno lo straordinario potere di compattare attorno a un ideale un intero popolo. Così individui molto diversi tra loro, ma accomunati da valori e da un’identità che si riconosce negli stessi riferimenti culturali, hanno perso la loro dimensione individualistica, in direzione di un deciso senso di comunità.
Parlare di Silvano Sarti equivale a parlare di un simbolo, in prima istanza per tutti coloro che credono nei valori della Resistenza, perché l’hanno vissuta o l’hanno appresa attraverso fonti di varia natura. Ma poi ci sono anche loro, quelli che non vogliono mettere bocca in questioni storiografiche divisive dal punto di vista politico, ma che ben conoscono il significato di parole come «libertà» e «democrazia», di fronte alle quali è impossibile non avere un fremito interiore.
Silvano incarnava tutto questo: la memoria e i valori. Prima di procedere con la parte più strettamente didattica, ci sia concesso, perciò, di offrire qualche piccolo esempio di come, ancora oggi, a distanza di due anni dalla morte, il sentimento popolare si esprima nei suoi confronti.
Silvano Sarti, nome di battaglia «Pillo», era nato nel 1925 a Scandicci e il suo nome si associò ben presto alle operazioni della brigata «Vittorio Sinigaglia», molto attiva a Firenze. Prima di questo, però, fu fatto prigioniero dalle forze nazifasciste e condotto presso la linea Gustav, dove fu costretto ai lavori forzati. Riuscito ad evadere, dopo una lunga marcia di centinaia di chilometri, fece ritorno a Firenze, prendendo parte alla sua liberazione, avvenuta l’11 agosto 1944.
Silvano è prima di tutto un partigiano, quindi, e in questa veste l’hanno voluto immortalare le autorità cittadine. A lui sono dedicati un murale in via del Pollaiolo e un giardino pubblico sul Lungarno Santarosa.
Silvano Sarti fu, però, anche convinto assertore della dignità dei lavoratori, per cui si batté con irriducibile convinzione per tutta la vita. Fu delegato sindacale nel settore tessile e dell’abbigliamento per conto della CGIL, settore che conobbe da vicino in quanto operaio presso il calzaturificio Rangoni di Firenze. Dalle lotte di fabbrica alle lotte di categoria in qualità di dirigente nazionale del sindacato, il passo fu breve. Non deve perciò sorprendere se oggi la CGIL dell’area metropolitana di Firenze lo ricorda con un premio letterario che porta il suo nome, un premio rivolto alle classi della scuola secondaria di primo grado ispirato alla Resistenza, tema più fattibile per ragazzi tra gli 11 e i 14 anni rispetto alle questioni oggetto delle lotte sindacali.
Ma ciò che più colpisce di questo attaccamento di una città a un suo simbolo è l’affetto della gente comune. Il giorno del suo funerale, il 27 gennaio 2019, Giornata della Memoria, piazza della Signoria era gremita. Faceva un freddo terribile, ma i tanti accorsi per commemorarlo non se ne curarono molto. Sotto l’Arengario di Palazzo Vecchio, dove fu adagiato il feretro per l’ultimo saluto, furono disposti dei tavolini con sopra i libri del commiato. Qui, com’è usanza, gli intervenuti trascrissero i loro pensieri, i loro ricordi, per lasciare traccia di ciò che Silvano Sarti era diventato agli occhi di chi non gli fu intimo amico o parente stretto. Sarà sufficiente citarne alcuni: «Grazie per avere incarnato gli ideali della Resistenza, per averli portati nelle piazze e nelle scuole. I miei figli li hanno vissuti nelle tue parole»; «Ciao grande Testimone ed esempio di amore per la libertà e la democrazia, oggi così poco gratificate. Grazie anche a nome dei tanti giovani che hai aiutato a capire!»; «Grazie per l’insegnamento che ci hai lasciato. Ora tocca a noi».
Come si può notare da questa piccola carrellata, la gratitudine della gente derivava principalmente dalla capacità che ebbe il nostro partigiano di trasmettere e incarnare con assoluta coerenza gli ideali più nobili della guerra di liberazione. E il successo della sua testimonianza è dato dal fatto che Silvano non sdegnò mai alcun tipo di pubblico, riuscendo a catturare gli ascoltatori con un linguaggio semplice e diretto.
Inutile dire che, con estremo compiacimento, accettava soprattutto gli inviti che gli avrebbero portato una platea di giovani. Per loro, Silvano aveva un’attenzione particolare. Sapeva di dover sfruttare al meglio il poco tempo che gli restava, a maggior ragione che, attorno a lui, la schiera dei coetanei si faceva di giorno in giorno più esigua. Per questo, anche in condizioni fisiche non sempre ottimali, accettava di incontrare gli studenti. Diceva loro, rivolgendosi ad uno qualunque affinché tutti capissero: «Tu mi devi aiutare, perché io non ci sarò per sempre!».
Si sentiva investito di grandi responsabilità, Silvano, e sapeva che, specie in un mondo che tende a dimenticare con facilità quello che è stato, la memoria va tenuta continuamente in vita. E non temeva di ripetersi o di reinventarsi dal punto di vista comunicativo, pur di mostrare al più alto numero di persone ciò che quegli occhi avevano visto e quelle orecchie udito.
Ma come nasceva un incontro didattico tra Silvano e un gruppo di studenti? Prima di tutto occorreva rintracciarlo. Il partigiano Pillo dava il suo numero di cellulare senza farsi problemi, ma chi non lo conosceva di persona doveva percorrere altre vie. Nel mio caso, mi fu sufficiente, la prima volta che cercai di contattarlo nel 2011, chiamare l’ANPI di Firenze, di cui all’epoca era presidente provinciale. Mi dettero il suo numero privato e da lì, per i successivi incontri, facemmo sempre per conto nostro. Occorreva chiamarlo con qualche settimana di anticipo rispetto alla data dell’iniziativa perché, per quanto la sua popolarità fosse circoscritta alla provincia e alla città di Firenze, l’agenda degli impegni era molto fitta e il suo nome gettonato.
Fissata una data, era sottinteso che l’organizzatore dovesse andarlo a prendere. Questa, almeno, era l’usanza nel suo ultimo decennio di vita, qualora l’incontro non si fosse tenuto a Firenze.
Negli otto anni che ci siamo frequentati ho avuto modo di coinvolgerlo in incontri pubblici in provincia di Pistoia cinque o sei volte. In alcuni casi l’incontro era polifonico, per dare uno spaccato più variegato dell’argomento trattato. Ricordo un incontro a Monsummano Terme con il prof. Marco Palla, ordinario di Storia contemporanea dell’Università di Firenze, uno a Montale, con Aldo Bartoli, presidente provinciale dell’ANPI di Pistoia, uno a Montecatini Terme con Matteo Grasso, direttore dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia.
La varietà di relatori e la loro autorevolezza aggiungeva qualcosa in più alla buona riuscita dell’iniziativa, ma Silvano era perfettamente capace di tenere banco da solo. Il suo intervento restava il più atteso e i suoi discorsi i più celebrati con scrosci di applausi. Lo ricordo attorniato da una decina di studenti alla fine di vari incontri e questo è forse il risultato più gratificante che ci si possa aspettare. Molto di ciò che viene organizzato all’interno delle scuole per spezzare la monotonia della solita lezione frontale, facendo ricorso a soggetti esterni, il più delle volte incontra il favore dei docenti, ma non degli studenti, sempre meno abituati a prestare attenzione per più di una manciata di minuti. Silvano non annoiava, questo è certo. La prova? Il silenzio che accompagnava ogni suo discorso.
Un incontro durava di solito un’ora e mezza, mai superava le due ore. Silvano era abituato a lunghi monologhi durante i quali sciorinava un ampio repertorio di aneddoti e affrontava svariati temi. Alla fine del suo intervento, che, nonostante la lunghezza, non annoiava mai grazie alle sue doti oratorie, si apriva lo spazio per un dibattito.
Le domande dei ragazzi occupavano all’incirca l’ultima mezz’ora dell’incontro. Cosa domandavano? Il più delle volte erano interessati a sapere come si sentisse lui, loro coetaneo di settant’anni prima, a dover rischiare la pelle quando invece avrebbe potuto vivere senza grosse rogne nella condizione acquisita. Il problema, rispondeva Silvano, era proprio quella, la condizione acquisita: «Sono nato nel 1925 nell’Italia fascista, un’Italia in cui nascevi privo della libertà. Quando ci chiesero se la rivolessimo, la libertà, noi giovani rispondemmo di sì. E fu così che diventammo partigiani».
Certo, riportati così questi discorsi suonano come qualcosa di eroico, anche se i partigiani non aspiravano ad essere chiamati «eroi». Ma gli studenti, nella loro curiosità a tratti sfacciata, riuscivano sempre a riportare il discorso a una dimensione più umana. I partigiani avevano scelto di combattere, non di rado nell’impossibilità di battere strade meno rischiose. E combattere significa imbracciare un’arma contro un tuo simile, nei casi più disperati. Ci fu un ragazzo, durante un incontro, che fece la fatidica domanda: «Ma lei ha mai ucciso qualcuno?». Se considerate che le domande non venivano mai concordate in anticipo, è facile intuire come un’uscita del genere, a bruciapelo, potesse gettare nell’imbarazzo il più sicuro degli oratori. Silvano, però, non si scompose e rispose con grande umiltà, dicendo che in un conflitto a fuoco anche a lui poteva essere accaduto di aver colpito un uomo, ma questo non era di certo un risultato di cui vantarsi.
L’immagine della Resistenza che traspariva dai suoi discorsi non era del tutto esente da imperfezioni. C’erano alcune macchie, anzi, e Silvano non si esimeva dall’affrontare anche le questioni più spinose. Diceva che i partigiani non erano certo dei santi, che anche loro avevano commesso degli errori e che avevano preso delle sviste. Parlava poi di quelli che riteneva più degli intrusi che dei compagni d’arme, quelli che avevano accettato di combattere per puro interesse personale oppure commettevano azioni criminali sotto la bandiera della lotta partigiana. A loro rivolgeva frasi aspre, non riuscendo a concepire atteggiamenti così bassi dettati dal più vile opportunismo o dalla più cieca efferatezza.
Un incontro promosso dalla scuola sembra avvalorare già di per sé la partecipazione di un determinato relatore, giustificando la sua presenza per fini educativi. È una presa di posizione, in un certo senso, che orienta già in minima parte la piega che prenderà l’iniziativa.
Non è detto, però, che il pubblico decida di assistervi in maniera passiva. Ricordo un incontro tenutosi a Pescia nel maggio 2018 all’interno dell’aula magna dell’istituto tecnico statale “Marchi-Forti”. Giunto il momento delle domande, a un certo punto uno studente di quinta si alzò e formulò l’affermazione più provocatoria che si potesse rivolgere a chi combatté per gli ideali della Resistenza: «Le posso dire che secondo me il fascismo non ha fatto tutto questo male e che anzi ha fatto molte cose buone?». Di fronte a una dichiarazione tanto inaspettata, chiunque avesse vissuto le fatiche di quei giorni avrebbe potuto rispondere con tono piccato, ma Silvano non si scompose e, senza raccogliere il guanto di sfida addentrandosi in discorsi sui crimini del fascismo che avrebbero potuto rendere il clima incandescente, disse: «Sai che ti devo ringraziare? Ti devo ringraziare perché ci ricordi come in un’Italia libera e democratica ci è data la possibilità di dissentire. Una libertà che a noi non era concessa e che abbiamo ottenuto anche per te, rovesciando il regime che ci opprimeva».
Eppure, le occasioni di scontro, a volerle cogliere, sarebbero state tante. Cosa può temere più di tutto una persona che visse i suoi primi diciotto anni di vita sotto dittatura? Semplice, che lo spauracchio bussi di nuovo alla porta. Silvano temeva che quei giorni potessero ripresentarsi, che gli italiani potessero dimenticare la loro condizione passata. E si addentrava nel terreno minato dello scenario politico contemporaneo, citando nomi di politici italiani che, a suo dire, rappresentavano una pericolosa deriva per i diritti civili della nazione. Trattandosi di personaggi sulla cresta dell’onda, è facile capire come riferimenti del genere potessero urtare sensibilità diverse dalla sua, obbligando il moderatore dell’incontro a contenere gli animi e a pregarlo di ricondurre il discorso alle tematiche della lotta partigiana, in considerazione del luogo e del tipo di uditorio. Ciò detto, però, è comprensibile il collegamento, del tutto personale, con l’attualità, un collegamento che si sarebbe dovuto incoraggiare, perché è anche per questo che si studia la storia, se Silvano si fosse almeno premurato di non fare espliciti nomi.
Nel suo repertorio, Silvano parlava molto, come è ovvio che sia, della Resistenza, ma ne parlava sempre senza scendere in particolari localistici che avrebbero potuto mettere in difficoltà chi Firenze non la conosceva bene. Le sue erano storie, non cronache meticolose e puntuali. Sapeva catturare l’attenzione dei ragazzi e tenerla stretta in pugno con una capacità comunicativa che aveva del sorprendente, se si considera che, a causa della sua origine operaia, non ebbe modo di progredire molto nel percorso di studi.
Metteva in campo molte delle tecniche dell’antica arte oratoria, forse non rendendosene neppure conto. Sapeva regolare il volume della voce, allontanando lo spettro della monotonia. Era capace di procedere per diversi minuti allo stesso modo per poi prorompere, in maniera del tutto inaspettata, in un grido che faceva sobbalzare tutti dalle sedie. Era veramente abile nel dosare il numero e la durata delle pause, disseminate con grande sapienza per tutto il discorso. Ed ogni fibra del suo corpo cooperava alla buona riuscita dell’intervento. Anche di fronte a platee di cento ragazzi, i suoi occhi si muovevano da un capo all’altro della sala, abbracciando gli astanti e creando intensi contatti visivi che facevano sentire importante l’interlocutore su cui il suo sguardo si posava.
Per non parlare dell’uso intelligente che faceva di certe figure retoriche, quali metafore, iterazioni, reticenze. Parlando della liberazione di Firenze, pronunciava spesso queste parole: «Quando Firenze fu liberata, fu un’esplosione di gioia in tutto il mondo!». Ovviamente, non fu così, anche perché pretendere che nazioni non coinvolte nel conflitto festeggiassero per una vittoria o una sconfitta che direttamente non le riguardava era chiedere troppo, ma la figura retorica utilizzata, l’iperbole, era certo un dato interessante per capire come si sentissero i fiorentini di fronte a quell’avvenimento festoso.
Da buon oratore qual era, Silvano portava sempre con sé due «strumenti del mestiere». Uno era una cartellina di plastica rigida in cui aveva accumulato, non si sa nel giro di quanti anni, numerosi articoli di giornale. Erano ritagli cartacei, sottratti con attenzione chirurgica e pazienza certosina ai quotidiani che andavano per la maggiore nella città di Firenze. Li estraeva uno ad uno, cercando quello che più si confaceva al commento di un fatto di cronaca che lo aveva particolarmente colpito e che metteva in risalto certe violazioni dei diritti civili o il rafforzamento di movimenti politici di estrema destra.
L’altro strumento che si portava sempre appresso era un libretto che dovrebbe trovarsi nelle case di tutti gli italiani: la Costituzione. Silvano teneva moltissimo a questo simbolo dell’Italia repubblicana, poiché vi vedeva la rinascita di un intero Paese. Diceva: «La Costituzione è così bella che ti accompagna da quando nasci a quando te ne vai da questo mondo». Nelle sue pagine, nei suoi articoli, Silvano rivedeva il sacrificio di tanti uomini e donne che avevano perso la vita per riaffermare il diritto di vivere in libertà. Rivedeva i dibattiti parlamentari delle differenti forze politiche che, pur distanti sul fronte ideologico, collaboravano per dare all’Italia un corso del tutto nuovo dopo gli anni appena trascorsi. Rivedeva, insomma, le garanzie a lungo cercate ed era con indescrivibile orgoglio che sventolava il libretto in faccia ai ragazzi durante le assemblee pubbliche. Li spronava ad andare a votare, comprendendo la loro sfiducia in ciò che la politica era diventata, ma esortandoli a superare i loro pregiudizi e a far sentire con vigore la loro voce.
Per difendere la nostra Costituzione, Silvano era pure finito sulle pagine dei principali quotidiani regionali in occasione del referendum di riforma tenutosi nel dicembre 2016 su iniziativa del governo Renzi. Questo era un episodio di cui parlava anche con i ragazzi. Matteo Renzi, all’epoca capo del governo, era tornato a Firenze nel maggio del 2016 per promuovere la campagna referendaria in favore del tentativo di riforma. Al teatro Niccolini, scelto come tribuna politica, si era recato anche il partigiano Sarti, all’epoca non più investito di incarichi di rappresentanza all’interno dell’ANPI. Era, sì, presidente provinciale onorario dell’associazione, ma più che un ruolo operativo si trattava di un riconoscimento al merito. La sua presenza in sala da privato cittadino fu però strumentalizzata per dare a intendere che il fronte dell’opposizione, di cui faceva parte pure l’ANPI, non fosse così compatto. Dura fu la replica di Silvano quando seppe che il suo volto voleva essere assunto a testimonial del progetto di riforma. Diversi articoli apparvero nei giorni seguenti, e in tutti il partigiano ribadiva di trovarsi lì a titolo privato, come un qualsiasi altro cittadino, ma che la sua posizione in merito era la stessa della sua associazione, pertanto contraria ad ogni progetto di riforma della Costituzione ritenuto «pericoloso» (Redazione politica 2016).
Da tutte le parole spese nei suoi incontri con gli studenti, si potevano ricavare molti insegnamenti, ma credo che uno in particolare sia il cardine su cui ruotavano tutti gli altri. Silvano ripeteva in continuazione quanto fosse importante la memoria. Non la memoria di chi è bravo ad imparare una poesia e poi a ripeterla per far bella figura di fronte al professore e alla classe, ma la memoria di chi ha qualcosa da tramandare, da non dimenticare. La memoria del testimone che ha vissuto di persona quel che si racconta, non del vanesio che vuole apparire uomo di intelletto in un breve frangente.
Ogni volta che apriva bocca, sembrava che con Silvano parlassero i testimoni che non c’erano più, gli amici di una vita che avevano conosciuto le stesse fortune e disavventure. Forse erano loro a dargli quella carica di cui non si direbbe capace un uomo alla fine dei suoi giorni, forse la responsabilità di essere uno dei pochi che ancora poteva riferire. Tutto questo cercava di farlo capire ai ragazzi, perché quel terribile monito, «io non ci sarò per sempre», lo ripetessero a se stessi per far sì che neppure un tassello di ciò che era stato potesse cadere nell’oblio.
Aveva cieca fiducia in quei ragazzi, Silvano, ma sapeva che andava tenuta alta la guardia, perché, col tempo, anche le ferite più profonde si cicatrizzano e, senza il dolore, l’accaduto passa in secondo piano. Non si trattava soltanto di rinfocolare la memoria, ma anche di difenderla da ogni sorta di vandalismo e revisionismo.
Nel novembre 2016 era stato lui a ritrovare in frantumi le lampade votive delle tombe dei partigiani Aligi Barducci e Bruno Fanciullacci al cimitero di Soffiano. E nel 2020 era toccato allo stesso Silvano, oramai defunto, subire le stesse ingiurie. Nel mese di luglio, quando il quartiere iniziava a svuotarsi, qualcuno, forse approfittando del favore delle tenebre, aveva imbrattato di vernice bianca il murale in via del Pollaiolo dedicato a Silvano e inaugurato un anno prima (La Repubblica Firenze 2020). Di fronte a tanti muri deturpati con bombolette spray, potrà sembrare la sciocca bravata di qualche buontempone annoiato. Ma non è così. A questo si riferiva Silvano quando, con tutto il fiato che aveva in corpo, gridava da un capo all’altro del più vasto auditorium: al rischio non solo di dimenticare, ma, dimenticando, di smettere di rispettare.
Riferimenti bibliografici
La Repubblica Firenze. 2020. “Firenze, imbrattato di vernice il murale dedicato alla memoria del partigiano Sarti.” La Repubblica Firenze, 20 luglio, 2020.
Redazione politica. 2016. “Firenze, il partigiano Sarti contro il referendum.” Corriere Fiorentino, 6 maggio, 2016.