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The contribution aims at discussing the word "Resistenza" in the framework of the life of the communities sinti and rom, between present and past decades. On one side the paper aims at highlighting the contribution rom and sinti gave to Resistance and ti-fascist movement, on the other side it shows sinti and rom's resistance against prejudices and stereotypes which determine their present. The riappropriation of their communitarian history as their national history can be considered as a powerful tool for building people's identity as citizens and it marks a path toward sharing and inclusion.
It is available online at https://doi.org/10.36253/978-88-5518-650-6.25
Resistenze e storie di rom e sinti per costruire insieme la memoria collettiva
Eva Rizzin
1. La storia della ‘resistenza’ rom e sinta come elemento d’inclusione narrativa
La parola «resistenza» è presente da sempre nella memoria e nella storia delle comunità rom e sinte italiane, ma i pregiudizi fortemente presenti nella società maggioritaria verso gli ‘zingari’, immaginati sempre e solo come nomadi e pericolosi, hanno portato all’elaborazione di due narrazioni parallele: da un lato le nostre comunità ricordano e fanno memoria dei propri familiari che hanno partecipato alla lotta di liberazione dell’Italia dal nazifascismo, dall’altro la comunità maggioritaria onora eroi partigiani che sono anche rom o sinti, ma sembra ignorare questa ‘seconda’ appartenenza, quasi che sia inimmaginabile pensare che dei partigiani facciano parte della funesta categoria degli ‘zingari’. È anche questo uno degli effetti dell’antiziganismo, eppure l’80% dei circa 180000 soggetti che compongono le nostre comunità in Italia vivono già perfettamente inseriti nel contesto sociale maggioritario, ma sopravvivono agli stereotipi soltanto non dichiarandosi: è l’unica strada per non vedersi precipitare addosso l’odio antizingaro che le ricerche svolte nel 2014 e nel 2019 dal Pew Research Center indicano presente all’86% nella popolazione italiana non rom. Utile quindi ricordare che almeno la metà di quei 180000 individui già citati sono persone italiane da secoli (giunte sulla penisola dal XV secolo) e che gran parte di essi sono comunitari arrivati in seguito alle guerre nei Balcani, senza essere riconosciuti come rifugiati, ma etichettati solo come ‘zingari nomadi’.
È questa condizione di una narrazione collettiva divisa che può rappresentare un elemento da cui ripartire, per costruire un nuovo strumento di racconto condiviso e utile alla definizione di percorsi inclusivi e di cittadinanza attiva: riconoscerne la storia secolare legata alla nostra nazione, che è storia di tutti e non soltanto chiusa in un recinto etnico, significa anche contribuire al pieno riconoscimento di cittadinanza di un popolo.
2. I partigiani rom e sinti
Credo quindi sia un passaggio utile proporre, come primo elemento di riflessione, la storia di due partigiani che è conosciuta e documentata, ma per le quali manca totalmente dalla narrazione pubblica, l’aspetto della loro appartenenza alle comunità rom e sinte. Sono due storie: una intervista allo stesso protagonista Taro Corsaro Debar e la storia di Omero Grandini narrata dal figlio Ernesto dopo la scomparsa del padre. Sono soltanto due vicende, ma ne esistono altre decine che testimoniano che persone delle comunità sinti e rom hanno partecipato alla Resistenza in Italia; sono tutti racconti rimasti assai vivi nelle nostre comunità. Ne aggiungo un’altra, più in breve, per rendere evidente questa narrazione divisa in due, una pubblica e l’altra interna alle comunità che fa un po’ da introduzione alle due interviste successive. È la storia di 4 partigiani che si muovevano nel vicentino e che erano sinti. Un cippo, a Vicenza, ricorda in realtà il sacrificio di dieci partigiani che, il 9 novembre 1944, fecero saltare la ferrovia presso il Ponte dei Marmi, per impedire il passaggio di un trasporto di armi che avrebbe rifornito i nazisti. Tra quei dieci partigiani, quattro erano sinti che lavoravano nello spettacolo viaggiante; si chiamavano Walter Vampa Catter, Ercole Lino Festini, Silvio Paina e Renato Mastini. I partigiani furono arrestati e dopo giorni di torture furono fucilati presso lo stesso ponte. Per giorni Vincenzina Erasma Pevarello, si spostò di città in città in cerca di Renato Mastini, suo compagno, e degli altri arrestati, fino a scoprire che erano stati uccisi per rappresaglia. Vincenzina, testimone che ha narrato le vicende dei quattro sinti, continua ancora a vendere il suo zucchero filato, come quando era piccola e suo padre che faceva il mago, realizzò la sua magia più bella: i tedeschi avevano minato il terreno intorno ad un paese del vicentino e, con uno spettacolo di giochi di prestigio, convinse i nazisti a sminare la zona. Queste quattro persone, tra i dieci partigiani di Vicenza, erano tutti sinti.
3. Amilcare Taro «Corsaro» Debar
Da bambino sono vissuto in un orfanotrofio, non ho conosciuto i miei genitori e quindi non sapevo neppure di essere un sinto. Mi chiamo Amilcare Debar e sono nato a Frossasco, nella zona di Torino, il 16 giugno 1927, il resto dei miei nomignoli, ‘Corsaro’ e ‘Taro’, sono arrivati dopo, legati alla mia storia di vita.
A 17 anni, in piena lotta partigiana, decisi di salire sui monti e mi unii alla quarantottesima Brigata Garibaldi. Era il battaglione “Dante Nanni” comandato da Pompeo Colajanni. M’impiegavano come staffetta e dovevo portare messaggi, per far comunicare tra loro i partigiani. Con un po’ d’esperienza in più e per il coraggio dimostrato, mi permisero di essere un combattente vero e partecipai a tanti scontri con i fascisti ed i nazisti nelle Langhe, una volta fui anche ferito; è così che sono diventato il ‘Corsaro’; c’ero anche quando è stata liberata Torino. Ripeto, non sapevo ancora nulla della mia origine. Un mio ricordo di quei tempi si lega all’incontro con un giovanissimo Sandro Pertini, poi diventato Presidente della Repubblica, quando lo incontrai era partigiano come me ed era una bellissima persona. Finita la guerra decisi di fare il poliziotto e successe che fermai per controlli una famiglia di sinti che si chiamava Debar. Con quei documenti in mano, mi si spalancò un mondo di domande sul mio passato. Li volli incontrare di nuovo e con attenzione ricostruii le mie origini, fino a non poter negare, soprattutto a me stesso, di essere un sinto e di aver ritrovato la mia famiglia. Decisi di abbandonare il mio lavoro per recuperare ed immergermi nella vita che non avevo conosciuto. Sono andato a vivere nel campo, ne sono stato felice. La mia battaglia di una vita è continuata con la lotta per i diritti di sinti e rom, ho potuto rappresentare il mio popolo anche alle Nazioni Unite.
Non importa chi siamo, né da dove veniamo, né in che modo viviamo. Siamo tutti uomini. È così che sono tornato ad essere anche ‘Taro’ tra i sinti che significa paffutello. Il momento più bello è stato quando Sandro Pertini, da Presidente, mi ha consegnato il mio diploma di partigiano. Ci siamo abbracciati, come si fa tra compagni di una vita. Avevamo entrambi combattuto per la libertà.
4. Omero Grandini
Mio padre si chiamava Omero ed è stato per me un grande uomo. Si trovò maggiorenne nel momento in cui scoppiò la Seconda guerra mondiale. Ha combattuto con l’Italia fino all’8 settembre 1943. Arrivato l’armistizio, mio padre si è rifiutato di proseguire a combattere con fascisti e nazisti ed è stato deportato in un campo di concentramento, non so dirvi il nome del campo. Riuscì a fuggire e salì in montagna, nella zona bolognese e modenese, unendosi alla Stella Rossa del comandante partigiano Mario Musolesi, detto Lupo. Mio padre era presente quando c’è stato lo scontro a Monte Sole con i nazisti. Era il 29 settembre 1944. La stella Rossa subì numerose perdite tra cui lo stesso comandante, ci fu un vero eccidio. Mio padre si salvò per miracolo con poche decine di partigiani. Omero è morto nel 1999 ed è oggi sepolto vicino al suo comandante presso il mausoleo di Bologna. Ogni anno, porto un fiore a mio padre e non manco mai di portarlo, come ha sempre fatto lui, al suo comandante Lupo. Conservo ancora la dichiarazione di partigiano che apparteneva a mio padre: lo rappresenta perfettamente, per i suoi ideali e per la vita esemplare che ha condotto.
Con questa storia di famiglia, come potevo non interessarmi alla storia, nella mia vita? È dal primo Treno della Memoria della Regione Toscana che viaggio insieme a tanti studenti verso Auschwitz, per condividere il dolore delle altre vittime e per ricordare che quel luogo fu la tomba anche di migliaia di sinti e rom.
5. Una storia di riscatto
Tra le narrazioni legate al tema più ampio della ‘resistenza’ intesa come opposizione alle persecuzioni razziali subite da rom e sinti durante il nazifascismo, ne esiste una che ha assunto un valore straordinariamente simbolico per le nostre comunità: si tratta della storia del pugile tedesco Johann Trollmann, detto Rukeli (nella nostra lingua «l’albero»). Nel 1933, Johann vinse il titolo dei pesi medi, ma era un sinto, per i nazisti uno zingaro: la persecuzione di questo popolo era già iniziata in Germania. Non era accettabile che uno zingaro potesse vincere un titolo prestigioso, così Trollmann fu costretto a combattere di nuovo con un peso massimo ed obbligato a restare fermo sul ring, proibendogli di muoversi e danzare sul quadrato di gara, come era solito fare, in modo simile a quanto propose più tardi il famoso Cassius Clay. Era evidentemente un combattimento impari, ma Johann, in segno di scherno per il razzismo nazista, si presentò sul ring con una parrucca bionda e con la pelle coperta di farina bianca: cadde al tappeto sotto i colpi del più potente avversario, ma nella caduta la farina andò a coprire il pugile ariano rendendolo ridicolo nonostante la vittoria. La storia di Trollmann si concluse con la morte, dopo aver affrontato la deportazione nel campo di Neuengamme e dopo essere stato costretto a combattere, ancora una volta, con uno dei kapò di quel lager: in quest’ultima occasione, Rukeli mise al tappeto l’avversario, anche se prostrato dalla durissima vita nel campo di concentramento; tre giorni dopo fu trovato morto con un colpo di pistola alla nuca. La cintura dei pesi medi che gli era stata tolta dal nazismo nel 1933, è stata restituita alla sua famiglia negli anni Duemila.
6. La storia di ‘resistenza’ di oggi
Non intendo paragonare il passato del nazifascismo al presente dell’odio rivolto verso i rom e sinti a livello sociale. Credo però che le narrazioni del passato abbiano la capacità di costruire due processi fondamentali: il primo è il processo di consapevolezza che può avvenire dentro le comunità, quando si prende coscienza, attraverso le narrazioni del passato, del proprio vissuto a livello comunitario e della propria partecipazione, spesso dolorosa, alle vicende storiche che hanno toccato tutto il resto dell’umanità; il secondo processo è quello del legame con l’esterno che è possibile ricostruire partecipando in modo attivo alla narrazione comunitaria, esponendosi in spazi d’ascolto in cui gli altri possano percepirti come parte di una stessa storia locale, nazionale, europea, internazionale. In fondo, la costruzione di comunità, ci ricorda lo storico Harari (2017), si basa su narrazioni condivise. In che cosa si esprime oggi questo percorso? Nella capacità di non riconoscere rom e sinti solo e soltanto come soggetti legati ad un ‘problema sociale’, ma come cittadini che da sempre attraversano le strade delle nostre città e che hanno vissuto e vivono eventi storici che li pongono costantemente al nostro fianco. Ecco perché, a fare da contraltare alle parole di odio spesso spese verso le nostre comunità, voglio ricordare una figura diversa, positiva e giovane: si tratta di un ragazzo, Simone, un quindicenne che a Torre Maura (Roma), di fronte ai picchetti di Casapound innalzati per impedire ad una famiglia rom di prendere possesso della casa popolare ad essa regolarmente assegnata, ha affrontato direttamente i manifestanti affermando il proprio dissenso. Sono piccoli segni di una resistenza che non ha connotazione etnica, ma che è la resistenza del presente, diversa da quell’evento storico che riguardò la liberazione d’Italia dal nazifascismo, ma che parla lo stesso linguaggio dei principi costituzionali che stanno al centro di queste narrazioni e che possono essere un profondo strumento d’inclusione sociale.
Riferimenti bibliografici
Bauman, Zygmunt. 1999. Modernità e olocausto. Bologna: il Mulino.
Bravi, Luca. 2014. Percorsi storico-educativi della memoria europea. Milano: FrancoAngeli.
Harara, Yuval Noah. 2017. Sapiens. Da animali a dei. Milano: Bompiani.
Piasere, Leonardo. 2015. L’antiziganismo. Milano: Quodlibet.
Rizzin, Eva, a cura di. 2020. Attraversare Auschwitz. Roma: Gangemi.